Intervistato da Eurosport Francia, Arrigo Sacchi si è raccontato a 360 gradi, parlando della sua carriera e del suo modo di vedere il calcio. Il due volte campione d’Europa con il Milan si è detto molto felice di vedere un calcio italiano più improntato al gioco offensivo, come quello dell’Atalanta, piuttosto che puntare tutto sulla tattica come fino a pochi anni fa. Sacchi ha anche spiegato di aver lasciato il mondo del calcio per il troppo stress, ma di essere totalmente soddisfatto della sua carriera.
La Serie A ha la miglior media goal per partita. Cosa è cambiato rispetto al passato?
“Prima di tutto, vorrei dire che ne sono molto felice. Il nostro modo di vedere il calcio è il riflesso della storia e della società di un Paese. In Italia, purtroppo, è dai tempi dei romani che non attacchiamo. Ogni tanto ci abbiamo anche provato, ma invano. Abbiamo praticato un calcio prudente, difensivo e tattico. La nostra forza è stata la tattica, più che la strategia: ci hanno detto che era sufficiente per vincere. Ad esempio, un club come la Juventus ripete sempre che vincere è l’unica cosa che conta. Volendo vincere a tutti i costi, rinnega tutti i valori della vita. Questo non ha permesso, in parte, al nostro calcio di evolversi. Io parlo di merito, di bellezza, di emozione, spettacolo e armonia. L’ottimismo non è vivere nel passato, ma nel futuro”
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Come vede il calcio italiano al momento?
“Io penso che nel tempo abbiamo imparato ad acquisire più cultura. Più in generale, attualmente viviamo in un mondo che non sarà mai più lo stesso. E’ una rivoluzione, non un’evoluzione. Rimango convinto del legame forte che esiste tra calcio, cultura e vita. I padri fondatori del gioco hanno pensato ad uno sport di squadra e offensivo. In Italia il calcio aveva perso questa immagine. Si era trasformato in uno sport difensivo e individuale. La stessa didattica era diventata individuale: un errore gravissimo”
Gli stadi a porte chiuse cambiano qualcosa sul numero dei goal realizzati?
“Può essere che anche l’opinione pubblica abbia progredito nel suo pensiero. Prima si viveva ancora in epoca preistorica. Allo stadio, spesso e volentieri, ti cantavano: ‘Devi morire’. Era la ripetizione di una cosa che potevi sentire 2000 anni fa dentro le arene. Simboleggiava un’evoluzione ancora da fare”
La mentalità è più importante della tecnica?
“Io non ho mai guardato i piedi dei miei giocatori. Ho guardato il loro spirito, la loro disponibilità, la loro modestia, la loro intelligenza e il loro entusiasmo. Non volevo giocatori con valori contrari ad uno sport di squadra, come l’eccesso di individualismo, la gelosia o anche l’avidità. Penso che anche il mondo si stia muovendo in quella direzione. Oggi, il pubblico va allo stadio e può giudicare una vittoria. Se è inutile, rimarrà nei libri ma mai nei cuori e nelle menti delle persone”
Un commento sul calcio giocato dall’Atalanta
“La partita contro l’Ajax è stata fantastica. Dovrebbe essere mostrata a tutti i bambini nelle scuole di calcio. Lo spettacolo è dove c’è l’intrattenimento, e poi puoi anche perdere se l’altra squadra è migliore della tua. Vedo altre squadre, anche piccole, che cercano di giocare la palla. Penso in particolare al Crotone, all’Hellas Verona o allo Spezia. E’ una rivoluzione delle piccole squadre. Sai perché sono arrivato al Milan in quel momento? Avevo un presidente, Silvio Berlusconi, che si allontanava dalla classica identità di voler vincere a tutti i costi. Berlusconi aveva grandezza. Mi ha detto: ‘Dobbiamo diventare la squadra più grande del mondo’. Ho risposto: ‘Questo traguardo può essere limitante e restrittivo’. Lui non capiva. Avevamo una sola possibilità: diventare la più grande squadra di tutti i tempi. Quando UEFA, World Soccer, France Football e SoFoot hanno eletto il Milan come la più grande squadra di tutti i tempi, ho preso il telefono e ho chiamato Berlusconi. Gli ho detto: ‘Hai capito perché ti ho detto limitante?”
E’ più importante giocare bene che vincere?
“Prendiamo il Napoli di Sarri. Non ha vinto, eppure la Curva gli aveva scritto: ‘Grazie per le emozioni’. Che bellezza. Non avevano vinto, ma avevano capito. Dobbiamo aumentare il livello di cultura”
Un pensiero sul passaggio di Marcelo Bielsa al Marsiglia
“Secondo me, la gente aveva capito cosa avrebbe portato a Marsiglia. Purtroppo, molti giornalisti sono opportunisti pur di vendere qualche copia in più. Se un allenatore vince, deve essere bravo. Non sono d’accordo. Non è così che funziona. Se la pensi così, non affini la tua cultura e la tua capacità di sapere se hai vinto con merito oppure no. Un giorno, uno dei miei giocatori mi ha detto che stavamo lavorando troppo e che non si stava divertendo. Gli ho detto che facendo poco non si raccoglie molto, e che se avesse dato tutto le persone lo avrebbero ricordato per tutta la vita. Non alleno da 25 anni, ma non appena vado da qualche parte mi viene chiesta una foto o un autografo. Questo perché sono riuscito a dare qualcosa. Il calcio è la cosa più importante tra le cose meno importanti
Una panoramica sulla sua carriera”
“Ho allenato per 27 anni partendo dalla penultima categoria esistente in Italia. Ho fatto tutte le categorie prima di arrivare in Serie B. Ricordo ancora quando il Milan ha deciso di scommettere su di me. Con il Parma avevamo giocato un’amichevole contro di loro. Berlusconi aveva appena comprato cinque giocatori della Nazionale italiana. Io, invece, avevo una squadra di ragazzini. Giocavamo bene e un mese dopo, in Coppa Italia, siamo riusciti a battere il Milan per 1-0 con pieno merito. Al termine della partita, Berlusconi è venuto verso di me e mi ha detto che mi avrebbe seguito. Tempo dopo, in un altro turno di Coppa Italia, ritroviamo il Milan: vinciamo ancora per 1-0 e Berlusconi mi chiama. Ho accettato, ma tutto questo perché avevamo vinto con merito. Berlusconi è un grande leader per questi dettagli”
Qualche rimpianto in carriera?
“Ho un debito con la Francia. France Football mi aveva eletto terzo miglior allenatore di tutti i tempi dietro a Rinus Michels e Alex Ferguson. E pensare che ho allenato in Serie A solo per cinque anni: lo stress mi stava uccidendo. Poi ho guidato la Nazionale e ho deciso di smettere dopo 27 anni. Ho dato tutta la mia vita al calcio, e il calcio me l’ha restituita con emozioni indescrivibili. Sono una persona felice e non ho rimpianti. Il secondo posto ai Mondiali del 1994? Il Brasile stava giocando meglio e meritava di vincere. Io ho sempre voluto vincere in base al merito: per me è sempre stato un valore”
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